Gli Stati Uniti si sa’ sono leader mondiali nelle telecom/media/technology. Come riportato oggi su Il Sole 24 Ore le sole societa’ che sviluppano prodotti/servizi legati a Internet hanno attirato $4Miliardi di investimenti di venture capital mentre quelle nel software $5Miliardi nel 2006 su complessivi $25,5 Miliardi di investimenti nel venture capital (10% in piu’ che nel 2005).

Anche in Europa come riportato in questo articolo nel 2006 gli investimenti dei fondi di venture capital nel settore Internet (cosiddetto web 2.0) sono aumentati da E36 Mln del 2005 a ~E220Mln (+500%). Oltre 54 imprese societa’ europee hanno trovato finanziamenti dai venture capitalist. Alcuni fondi gia’ iniziano a lamentarsi che le aziende piu’ promettenti nello spazio stanno iniziando ad avere valutazioni eccessive.

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Sappiamo che il Governo ha fatto della crescita economica la priorita’ per la fase 2 nel dopo Caserta.  Ora dopo le enunciazioni dei principi pero’ occorre passare rapidamente all’azione, se no anche questa opportunita’ di afferrare il ciclo positivo svanisce.

Tra le prime urgenti misure in via di definizione, almeno da quello che si e’ potuto apprendere dai quotidiani nazionali, c’e’ la riduzione dei tempi e la semplificazione burocratica per l’avvio delle nuove imprese. Misura forse facile e a costo zero, un early winner come si suol dire. Positivo che il Governo si preoccupi di supportare e accelerare la nascita di nuove imprese; certo la crescita economica deriva in misura maggiore dalla possibilita’ delle neonate imprese e di quelle medie gia’ esistenti di trovare terreno fertile su cui potersi sviluppare e crescere. Infatti se nascessero  piu’ imprese ma poi non trovassero le condizioni per sopravvivere e svilupparsi l’impatto positivo sull’economia non si avrebbe.

Occorre quindi dare slancio e attuazione immediata a politiche legate allo sviluppo della concorrenza sui mercati a partire dal settore dei servizi (energia, tlc, servizi publlici,….). Intanto, come chiede GIavazzi sul Corriere, si potrebbe da prova di voler rafforzare l’Autorita’ per la concorrenza dei mercati (i.e. Antitrust) con nomine in commissione dei fautori del libero mercato. Questa si sarebbe la la prima “cosa davvero di sinistra” del 2007. Misura sempre a costo zero e facilissima se esiste davvero la volonta’ di cambiare. 

Dopo diversi tentativi gia’ nel lontano 1999 poi abortiti forse perche’ troppo anticipatori (come non ricordare la brillante idea di Virgilio De Giovanni con Freedomland) la diffusione significativa dell’accesso a larga banda, la disponibilita’ di una sempre piu’ ampia gamma di contenuti video di tipo televisivo/film di qualita’ (es., RAI, come documentato oggi su Nova 24 Ore,  ha appena annunciato di voler potenziare l’ offerta video per la rete e recenti sono gli accordi di Apple Disney e Paramount per veicolare i film) o autoprodotti (es. da fornitori di palinsesti innovativi o aggregatori quale YouTube,…) in rete stanno sostenendo il rapido sviluppo della web tv  e il 2007 sembrerebbe essere nato come l’anno della diffusione su larga scala del nuovo media.  

Ma, come avevo gia’ accennato in precedente post, tre sembrano gli anelli mancanti all’appello del consumatore:

  1. Il device (o hw) che consente di veicolare e vedere i video sulla TV e non sul PC. Ovvero un prodotto che faccia da gateway sulla rete, consenta di memorizzare centralmente i miei DVD e gli altri contenuti video e consenta la fruizione sugli apparati TV e stereo esistenti in casa. Insomma ibrido tra un set top box/ un pc/un DVD recorder con disco fisso/un apparato per il time shifting TV….
  2. Un sistema di networking (wireless o powerline) per rendere poi accessibili remotamente i contenuti e poterli guardare sia sul flat screen TV in salotto sia simultaneamente sugli altri televisori in giro per la casa. Un router e relativo protocollo di trasmissione affidabile, veloce e in grado di superare gli ostacoli come muri spessi, interferenze,…
  3. Una interfaccia utente che consenta di decidere cosa c’e’ da vedere stasera su YouTube, RAI, e gli altri canali web e accedervi in modo semplice, immediato, condiviso etc ovvero navigare in maniera semplice ed immediata attraverso un’unica vista come avviene oggi grazie alla guida elettronica dei programmi e al telecomando.
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Con la chiarezza e semplicita’ che ne ha fatto un icona della divulgazione scientifica per neofiti,  Piero Angela nel suo ultimo libro sull’energia “La sfida del secolo”,  spiega che il petrolio di per se’ non e’ energia e quindi di per se’ non e’ una fonte di ricchezza. Infatti prima della rivoluzione industriale e dell’ invenzione di motori e delle macchine chi avesse posseduto un pozzo di petrolio (o una miniera di carbone) non avrebbe saputo che farsene. E’ solo attraverso la combinazione di queste tecnologie (petrolio,carbone,..) con altre tecnologie (macchine, motori,..) resi possibili attraverso la conoscenza e l’ingegno dell’uomo che il petrolio diventa vera e propria fonte energetica  e contribuisce a creare grande ricchezza in quei Paesi che per primi la utilizzano.

Mentre leggevo questo libro mi sono capitate in mano vecchie fotografie che ritraevano spaccati della  civilita’ contadina subito prima e subito dopo l’avvio dei primi processi di innovazione e meccanizzazione in ambito agricolo avvenuti  a cavallo del secolo scorso. Una realta’ questa che conosco bene  in quanto la ditta Orsi Pietro & figlio,  fondata nel 1881 da mio trisnonno, fu’ tra le prime in Italia e in Europa a produrre quelle macchine e tecnologie (ad esempio il treno completo "locomobile-trebbiatrice-pressapaglia"  e i "trattori a testa calda" poi) che consentirono la prima automazione dei processi agricoli (una collezione delle principali macchine agricole prodotte dalla ditta Orsi tra il 1902 e il 1955 e’ esposta oggi al Museo Orsi  intitolato alla memoria di mio padre Roberto Giuseppe Orsi Carbone a Tortona). 

E’ quindi  solo attraverso la combinazione di tecnologie innovative con i nuovi combustibili che permise finalmente di far decollare la produttivita’ nel settore agricolo e mise in moto la prima grande ondata di sviluppo economico e creazione di ricchezza nel Paese, fino ad allora basato su di una economia di mera sussistenza (i.e. mi nutro di quel che  produco)

Il piano energetico del futuro, ci insegna quindi la nostra storia, non puo’ e non deve essere un semplice piano di approvvigionamento di questa o quella fonte da questo o quel Paese ( es. gas russo o algerino, petrolio saudita o iraniano,….), peraltro cruciale in una fase di progressivo esaurimento di alcune delle principali fonti utilizzate, ma deve  soprattutto contenere un piano ambizioso di ricerca ed innovazione tecnologica, ovvero la ricerca di combinazioni nuove ed  innovative tra le diverse risorse presenti in natura che di per se’ stesse non hanno come detto grande valore (es. combustibili fossili, sole, vento, uranio, idrogeno,…) e nuove tecnologie, macchine, sistemi e motori ancora da inventare. Sara’ questa la possibile merce di scambio, oltre al denaro, che consentira’ di accedere alle scarse risorse energetiche e porra’ le basi per un nuovo sviluppo economico del Paese.

L’Italia, e’ risaputo, e’ un’economia di trasformazione. Ovvero non possedendo che in minima parte l’ energia e le materie prime, basa la propria possibilita’ di creare ricchezza (per poi di poterla distribuire/condividere ad esempio tramite sistemi di welfare) producendo prodotti e servizi competitivi da vendere sui mercati internazionali. E questo si riesce a fare a livello di sistema e in scala maggiore e crescente quanto piu’ forti si e’ nella ricerca, nella scuola/educazione, nei settori tecnologicamente avanzati.

In altre parole occorre saper innovare e produrre prodotti e servizi che incontrano sempre meglio il favore e offrono un maggior valore ad un numero crescente di clienti nel mondo e che sappiano generare valore sufficiente  per compensare il costo crescente dell’energia (la cosiddetta bolletta energetica nel 2006 pari al livello record di E48 Miliardi pari al 3,3% del PIL) e delle materie prime, oltreche’ il costo del lavoro (che in Italia per unita’ prodotta e’ tra i piu’ alti tra i paesi avanzati) e una burocrazia asfissiante e costosa.

Per vincere a livello di sistema e creare ricchezza quindi  occorre “sapere innovare” e questo  indipendentemente dal modello politico di riferimento ovvero  “democrazia sociale” o “il liberalismo” che divergono su come condividere e ridistribuire la ricchezza generata).  

Un grande progetto politico, una visione illuminata del Paese per il futuro dovrebbe avere  "l’innovazione e la competitivita’" come obiettivo prioritario da cui articolare poi una politica dell’offerta” coerente a tutti i livelli. Negli anni novanta c’e’ stato "l’euro" a coagulare gli sforzi degli italiani verso una meta comune, oggi serve un nuovo ambizioso  progetto su cui scommettere il nostro futuro e quello dei nostri figli,  ma non si chiama  "Topolino"!

In un fondo di de Bortoli sul Il Sole 24 Ore, prendendo spunto da alcuni commenti fatti da Profumo e Scaroni circa le caratteristiche degli italiani, veniva evidenziato il disallineamento sempre piu’ marcato tra efficienza aziendale ed (in)efficienza generale. Cerchiamo di approfondire il perche’ di questo divario e cosa bisognerebbe fare per ridurlo.

Provando a semplificare, tre sembrano essere le dottrine politiche prevalenti in Europa ed in Italia:

         la “Tradizione”, ovvero mi comporto secondo quanto gli usi/costumi e la religione mi dicono sia giusto fare, che e’ stata l’idea politica dominante fino alla rivoluzione industriale,

          il “Liberalismo”, ovvero posso fare cio’ che voglio finantoche’ non urto gli altri e contribuisco a creare valore, dove lo Stato ha un ruolo marginale per assicurare alcuni beni pubblici irrinunciabili come l’ educazione scolastica (che permetta a tutti di entrare nel sistema con le stesse chance), la sicurezza e il rispetto delle leggi di mercato (che fa’ si che una parte non tragga indebito vantaggio su un’altra) , mentre l’equita’ del sistema e’ lasciata al dispiegarsi delle forze di mercato (minima e’ la politica di redistribuzione e sostegno)  che e’ il credo politico dominante nel mondo anglosassone (USA, UK,..)

          la “Democrazia Sociale”, ovvero lo Stato interviene (cosiddetto welfare state) per garantire l’uguaglianza tra i cittadini e che ai piu’ deboli vengono riconosciuto un livello minimo di sostegno indipendentemente dal loro contributo al sistema (con forti politiche redistributive ed un intervento diretto dello stato nell’economia), che e’ il credo politico nato in Europa con il comunismo all’inzio del secolo scorso e poi stemperatosi nelle social democrazie del dopoguerra.

Tre le sfere a cui queste dottrine possono essere applicate: quella “Sociale/Generale” e quella “Aziendale” (oltre alla “Individuale” dove resta prevalente, in Europa, la Tradizione).

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Il Governo Italiano ha recentemente deciso di cedere il controllo di Alitalia ai privati (finalmente viene da esclamare per i contribuenti italiani!).  Alitalia brucia infatti circa trecento milioni di Euro ogni anno che lo Stato ( ovvero noi cittadini contribuenti) abbiamo sin qui ripianato, opera in un settore molto competitivo (si pensi al successo dei carrier low cost), ha un parco velivoli vecchio e una struttura di costi (del lavoro in particolare) molto rigida e non competitiva (grazie alla miopia sindacale) e in questi anni ha perso quote di mercato a favore della concorrenza internazionale. Concorrenza che quando va’ bene riesce a far utili per remunerare il costo del capitale investito (il settore del trasporto aereo non offre extra rendite).

Diversi tra i principali imprenditori italiani sollecitati dal Governo ad intervenire nell’operazione hanno dato una disponibilita’ di massima a guardare all’operazione. I sindacati chiedono addirittura che i dipendenti diventino gli azionisti di controllo (forse senza nessun salvagente sarebbe la soluzione  ottimale). Un po’ di cautela e’ d’obbligo, ma la Borsa e i piccoli risparmiatori gia’ festeggiano. Ma l’attenzione dei cittadini consumatori va posta nel “come” la privatizzazione verra’ condotta. Lo Stato si sa’ e’ in conflitto di interessi tra massimizzazione dell’introito dalla cessione, protezione dei dipendenti pubblici e protezione del cittadino consumatore dall’altro.

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Uno dei fattori chiave che determina la competitivita’ di un sistema economico e’ una giustizia che funzioni e che sappia far rispettare le leggi, contratti e quant’altro. In Italia si sa’ la giustizia funziona poco e male rispetto agli altri Paesi con tempi lunghissimi per dirimere le cause e mandare a conclusione i processi: un fattore che allontana a parita’ di altri fattori gli investimenti.

Siccome una riforma organica e’ forse (sic!) troppo complessa da concepire/realizzare  (le nuove leggi nel settore si sa’ vengono fatte solo ad personam) la classe politica pensa di risolvere il tutto con il classico colpo di spugna: il provvedimento di indulto. In un botto solo piu’ di 30.000 tra detenuti con sentenza definitiva, detenuti in custodia cautelare, soggetti su cui pendono accuse varie si trovano liberi in circolazione. Mi auguro (ma non metterei la mano sul fuoco) che il Parlamento avesse stimato con precisione l’effetto del provvedimento votato guarda caso all’unanimita’ da i due schieramenti politici. Non sembra pero’ aver tenuto conto dell’impatto del provvedimento stesso sui processi in corso che, come mi raccontava qualche sera fa’ un giudice di pace, devono comunque tenersi, con tutti i costi del caso, sapendo gia’ da subito che le eventuali condanne verranno ridotte/condonate (ovvero il processo serviranno a poco/nulla!) e mentre contestualmente la legge Cirielli, che prevede tempidi  prescrizione ridotti, rischia di sterilizzare anche i nuovi processi. Ma scoperto "tempestivamente" il problema ( mi chiedo ma perche’ solo dopo aver votato compattamente a favore dell’indulto?) ecco che i politici,  con ex magistrati e avvocati in testa,  trovano subito la soluzione appropriata: l’amnistia per tutti.

Ecco varata la vera prima riforma a favore della competitivita’ del sistema Italia! Nelle aziende quando il vertice sbaglia palesemente viene rimosso e sostituito, e in politica?

Francesco Giavazzi e Alberto Alesina  nel loro ottimo saggio Goodbye Europa   ( dovrebbe essere adottato come libro di lettura obbligatorio in tutte le scuole medie superiori/universita’),  descrivono con grande semplicita’ e chiarezza perche’ il gap di ricchezza tra USA ed Europa si sta’ allargando e l’Europa e’ entrata in una fase di declino e cosa bisogna fare per invertire questo trend che porterebbe alla marginalizzazione dell’Europa: in sintesi meno sussidi statali e piu’ incentivi alle persone, lasciando poi lavorare il mercato.

Il reddito medio pro capite e la sua crescita nel tempo offrono una misura sintetica del livello di ricchezza di un Paese e delle persone che in esse vivono. Rappresenta il valore medio dei beni e servizi che ciascuno di noi mediamente produce ogni anno.  Ad inizio ‘900 questo indicatore era pressoche’ uguale tra le due sponde dell’Atlantico. Nel 1950 dopo le guerre che devastarono l’Europa il reddito pro capite dei Paesi Europei era la meta’ di quello USA. Tra il 1950 e il 1980 il gap si era prima assotigliato al 75% per poi stabilizzato al 75% nei succesivi quindi anni fino al 1995 quando il divario e’ rincominciato a crescere di nuovo. Certo il reddito pro capite non e’ il solo determinante della qualita’ della vita, ma alla fine i soldi contano soprattutto quando ci si confronta con gli standard di vita e la capacita’ di spesa degli altri.   

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Come tutti sanno il mercato del lavoro in Italia  (ed in Europa piu’ in generale) e’  rigido. Ma cio’  in presenza di un mercato competitivo nei beni e servizi (dove il conto non puo’ piu’ essere traslato sui consumatori in termini di prezzi crescenti) e’ di fatto un cocktail esplosivo. Aggiungiamoci un possibile intervento/incentivo statale a supporto dello status quo e la distruzione di ricchezza e l’impatto negativo sulla competitivita’ si fa’ insostenibile.

Infatti se un gruppo possiede un’ azienda (o un ramo di attivita’ ) che va male non puo’ ristrutturare e ridurre i costi (tra cui quelli del personale) per tornare a competere sul mercato.  A maggior ragione se l’azienda si chiama Italtel con una sua storia di lotte sindacali d’avanguardia. Gia’ nel 1995 (all’epoca ero  consulente in McKinsey e lavorai ad un progetto in Italtel-Siemens) i confronti con i concorrenti  internazionali mostravano impietosamente che per alcune aree di attivita’ il gap competitivo (es. maggiori costi) era ormai quasi incolmabile. Solo attraverso processi di profonda ristrutturazione con esuberi di alcune migliaia di addetti si sarebbe potuto rimettere le cose a poste. Ma ovviamente cio’ non era politicamente/socialmente sostenibile.

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