Si e’ scritto, discusso e letto molto in settimana sul merger Google-YouTube e in settimana. Ne discutevo l’altro giorno con  Giorgio Zarrelli, esperto informatico e giornalista e blogger molto conosciuto.

Sicuri vincitori sono gli azionisti fondatori e il vc di YouTube che intascano la cifra record di $1,65 Bn in azioni Google (su del 4% all’an nuncio). Ma anche Google ha le sue ottime ragioni e dimostra con le spalle sufficienti larghe (a differenza dei media players tradizionali) da sostenere un operazione dai rischi ancora elevati. Si sa’ chi non risica non rosica.

Google ha tecnologie HW/SW con scala globale a costi ridotti,  una concessionaria pubblicitaria innovativa e superpotente (Google Adsense) e relazioni con editori/media. YouTube rappresenta la nascente Internet TV.  In altre parole e’ come avere messo insieme sulla televisione di domani  “Publitalia” (cioe’ Google la concessionaria) e “Mediaset” (ovvero YouTube cioe’ il modo nuovo, dal basso partecipativo di costruire i palinsesti del domani): la logica industriale quindi non fa’ una piega. E la valutazione se uno crede in questo mercato, oggi appena nato, neppure.

A Google-YouTube mancano pero’ ancora due anelli: ovvero “iGune” (l’interfaccia utente/ o sw) per decidere cosa c’e’ da vedere stasera su YouTube e “iGod” (il device o l’hw) per guardare poi quel video sul televisore di casa (anziche’ sullo schermo di un pc).  Nuove idee in questo spazio potrebbero trovare un mercato florido.

A quel punto Google avrebbe un vantaggio competitivo su Apple, il suo unico grande potenziale concorrente sulla distribuzione di contenuti multimediali. A meno che i due colossi non decidano di unirsi  prima, rafforzando i legami gia’ esistenti. Antitrust permettendo.

CNN ha confermato rumors che la trattativa per l’acquisto di YouTube da parte di Google potrebbe essere alle battute finali per un valore d’impresa vicino a $1,6 Miliardi.

 Questa e’ YouTube oggi in sintesi:

– start up privata nata nel 2004

– ricavi prossimi a zero

– upload/storage di quasi 100 Milioni di video/giorno

– – molti dei video caricati sul sito avvengono in violazione dei copyright (ovvero YouTube non paga i diritti sui copyright)

– annunciato recente un accordo con Warner Music Group per la retrocessione di parte dei ricavi pubblicitari sugli spot trasmessi prima della fruizione dei video che contengono video musicali/interviste protetti da copyright. La torta pubblicitaria sul video in USA e’ di $ 350Milioni quest’anno e dovrebbe crescere del 120% a ~ $1bn gia’ nel 2007. 

– 34Milioni di visitatori mese quanto Google Video e Yaooh! assieme (i.e. oltre 50% mkt share)

– assorbimento di cassa pari a $1-1,5M/mese soprattutto per pagare i server, la banda e altre spese operative

– zero profitti

 Il mercato mondiale dei video in streaming conta oggi oltre 70 Milioni utilizzatori mese ovvero ~30% degli oltre 260 Milioni abbonati a banda larga in forte crescita. Poi ci sono quegli spettatori che vedono i video ma dopo averli scaricati (anziche’ in streaming dal server YouTube), ma probabilmente i segmenti sono in gran parte sovrapposti.

Quanti di costoro vorrebbero vedere i video, film, serie TV si YouTube o scaricabili da Internet sullo schermo della TV anziche’ sul PC ?  

Che la maggioranza dei politici, soprattutto quelli nostrani,  stentino a capire la portata e l’impatto di Internet sulla politica e’ evidente se non altro dalla scarsa attenzione che danno al mezzo rispetto alle saghe per il controllo di giornali e TV che infiammano ormai quotidianamente la battaglia politica.

Fra meno di due o tre anni pero’, profetizza sul Financial Times Eric Schmid, il CEO di Google, saranno disponibili algoritmi e applicativi in grado di confrontare con certezza promesse e dichiarazioni dei politici con le corrispondenti decisioni e azioni e stilare una classifica oggettiva dei politici piu’ credibili. Con un impatti imprevedibili sulle successiva possibilita’ di rielezione. 

Ormai non passa giorno in Europa in cui una nuova start up tecnologica vada sulla rampa di lancio. Sembra di esere tornati indietro di qualche anno.

Oggi International Herald Tribune dedica spazio a Rebtel, uno start up svedese nei servizi di telefonia cellulare. Questi signori imprenditori con soluzione banale e un po’ improbabile i.e. un "trasferimento di chiamata" che si configura in pratica in un servizio telefonico dal cellulare complesso da utilizzare per i clienti (per la tariffa flat occorre addirittura fare un call back!?!) ha raccolto dopo meno di 18 mesi dallo start up $20Milioni da Index Venture e l’amico Danny Rimer e Benchmark Capital per la commercializzazione dell’applicazione su scala globale.    Read More

La vicenda Telecom con il piano di scorporo di TIM e la sua possibile cessione (magari all’estero) ha sollevato un grande polverone e consente alcune riflessioni sull’evoluzione del capitalismo italiano.

L’argomento piu’ gettonato dalla una parte delle classe politica (sia di sinistra sia destra) e’ il seguente: l’affaire Telecom/TIM dimostrerebbe, se ancora ce ne fosse bisogno, che in Italia ci sono imprenditori ma senza capitali, o almeno senza grandi capitali. Questo ha come effetto il nanismo delle imprese italiane e fa’ si che oltre certe dimensioni le imprese italiane vengano cedute all’estero dove i capitali sono disponibili in grandi quantita’. Per evitare cio’, soprattutto per mantenere il controllo di imprese in settori “strategici per il Paese” serve un nuovo schema di partecipazioni statali al fianco dei capitali privati per acquisire e mantenere il controllo degli assets strategici in Italia.

I capitali in Italia ci sono, eccome. Basta guardare il tasso di risparmio degli italiani. E’ vero pero’ che a differenza di cio’ che avviene in altri Paesi avanzati sono meno concentrati in misura rilevante nelle mani di pochi (e forse e’ un bene); soprattutto mancano quasi del tutto i grandi intermediari finanziari specializzati (es. fondi di private equity, fondi pensione,..) in grado di raccogliere concentrare grandissimi patrimoni e di indirizzarli sull’investimento e in alcun casi sul controllo di grandi imprese/assets industriali.

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E’ il titolo di un intervista a Pier Luigi Zappacosta, imprenditore nato in Italia a Chieti ma che ha sfondato nella Silicon Valley con due iniziative innovative e di grande successo come Logitech prima e Digital Persona poi. Era tornato per fare qualche investimento nella sua amata terra, ha capito l’andazzo ed ha deciso di tornare a gambe levate in California. E’ quello che da tempo mi consiglia di fare mia moglie aggiungendo che “solo un pazzo puo’ voler fare l’imprenditore in Italia”. Purtroppo amo troppo il mio Paese e penso che sia un fantastico privilegio essere nato e poter vivere qui. Condivido pero’ totalmente le tesi di mia moglie e di Pierluigi , che tra l’altro ebbi la fortuna di conoscere a Palo Alto nella primavera del 2002. Che poi sono le tesi che sta’ facendo proprio da qualche tempo Il Sole 24 Ore e il suo illuminato Direttore Ferruccio De Bortoli cercando di iniziare a disseminare la cultura del "fare impresa" in Italia.

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Eureka we failed! Cosi’ titolava la copertina di Business Week tre settimane fa’.  All’interno l’articolo spiega come la chiave dei grandi cambiamenti e delle grande innovazioni abbia sopprattutto a che vedere con organizzazioni che hanno saputo promuovere ed incentivare la cultura della sperimentazione, del rischio e quindi dell’insuccesso. Addirittura consiglia l’articolo occorre festeggiare gli insuccessi e parlarne apertamente. Solo cosi’ infatti si potranno capire gli errori commessi ed evitarli la volta successiva, il vero grande valore dell’insuccesso. Nell’articolo grandi manager e imprenditori parlano dei loro insuccessi e delle importanti lezioni che ne hanno tratto.

In Italia la cultura dell’insuccesso e’ pressoche’ inesistente come quella del rischio e quindi del fare impresa: addirittura la parola insuccesso negli affari non esiste, si parla solo di “fallimento” che il piu’ delle volte, se fraudolento, ha connotazioni penali legate a distrazioni, occultamenti, arricchimenti di una parte di soci/manager/istituzioni finanziarie nei confronti di altri risparmiatori, etc. ..(es. Parmalat, Cirio, Finpart, Giacomelli,…..). In altre parole nel sistema Italia non e’ consentito “non avere successo”, le aziende/i progetti devono andare bene per forza o essere tenute in piedi a qualsiasi costo, il che si traduce nell’assenza di innovazioni dirompenti (che come detto sopra hanno l’insuccesso il trial and error come “way of doing it”)  perche’ nessuno vuole prendere il rischio.

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I tassi USA saliranno o scenderanno? Cosa fara’ Bernanke il nuovo Chairman della Federal Reserve? Cosa succedera’ ai nostri portafogli? Questa e’ la fantastica interpretazione del nuovo Dean della Columbia Business School Glenn Hubbard in un video molto divertente. Video che rappresenta un esempio lampante della qualita’ ed ampiezza della libreria di contenuti video amatoriali e di dominio pubblico fruibili sulla rete (oggi prevalentemente ancora tramite PC) grazie a siti come Youtube, Rocketboom, VPOD,….. Sei pronto a creare il tuo palinsesto personale e lanciare la “tua”  TV?

Avevamo predetto l’esplosione di Internet e degli accessi a banda larga. Oggi, nonostante lo sboom della bolla e le difficolta’ finanziarie e di mercato che hanno caratterizzato le fasi di crescita iniziale di molte start up e non, tra cui ePlanet (oggi Retelit) che fondai nel 1999,   quelle previsioni stanno diventando realta’ con oltre 250 milioni di accessi a banda larga nel mondo in forte crescita.

Ma che cosa caratterizza le nuove aziende del WEB 2.0? In poche parole, i bassi investimenti necessari per partire (low cost), un mercato globale significativo e “always on” (global),  la partecipazione delle persone ai progetti  come clienti/fornitori (social partecipation/interactivity), la disponibilita’ di piattaforme/sistemi aperti su cui costruire (open platform) e l’abbondanza di contenuti liberi (copyleft). L’aria e’ quella del 1998, ma le nuove business idea possono poggiare su un mercato on-line reale, solido e in forte crescita. Non tutti ce la faranno ma cio’ e’ normale nel processo shumpeteriano di distruzione creativa. Le innovazioni sono sempre piu’ legate a nuovi modelli di business (e non necessariamente alla disponibilita’ di tecnologie avanzate) resi possibile da strutture di costo significativamente inferiori rispetto a quelle dei player tradizionali. Tutto cio’ significa che questi ultimi sono destinati a sparire? Certo che no, ma le “Ryanair” ad esempio dell’acceso mobile ubiquo ad  Internet , della diffusione di contenuti editoriali e video digitali personalizzati appariranno presto all’orizzonte.